Flusso di coscienza

Mi sorprendo a guardarlo, il cielo, a perdermi nei suoi colori e nei movimenti di ali che si aprono, si piegano, si tendono ancora. Osservo le luci accendersi dalle finestre e il sole tramontare annoiato, mentre qualche gatto si allontana chissà dove miagolando. I lampioni illuminano la strada, il fumo esce dalla bocca di alcuni passanti fermati a salutarsi. La luna si flette su se stessa, esile figura argentea di una sera che non accenna a rischiararsi.

Intanto preparo l’acqua per il tè, e annuso il profumo della legna accanto al caminetto. Ripeto i gesti dei miei nonni: penso a loro, alla poltrona su cui si sedeva l’uno, al lavoro a maglia che occupava l’altra, in quei pomeriggi autunnali di una vita fa che sembrano così lontani. E mi sento vecchia, debole, impaurita dal tempo passato, dai bilanci e da un futuro che si presenta inafferrabile e totalmente diverso da quello che avevo immaginato.

Sono anni che prendo a pugni il presente, anni che combatto per dare un senso alla mia esistenza, anni che vedo la bambina che ero delusa da ciò che sono, o meglio, non sono diventata. Ho freddo, attorciglio nervosamente una ciocca di capelli dietro le orecchie, e controllo il telefono.

Il bollitore fischia contento, mi avvicino per spegnere il gas, forse troppo, e inavvertitamente ne sfioro la superficie. Mi scotto come tante altre volte e non m’importa, quasi non provo dolore, solo il fastidio di esserne la causa. Perdonare me stessa, quali che siano le colpe (piccoli o grandi, reali o presunte), mi è sempre riuscito da schifo.

Mi accosto alla finestra, bevo il tè ottenuto al prezzo di una lieve bruciatura. Solo allora vedo riflesso nel vetro un sorriso accennato sul volto, e con sollievo mi riconosco. Respiro.

Ecco, ora sono a casa.

 

 

(In alto una mia foto di Lucca, piazza Anfiteatro, autunno 2014).